Quesito del COA di Roma

Il quesito riguarda:

a) la possibilità per un avvocato di entrare a far parte di una associazione professionale, mantenendo al contempo uno studio individuale e proseguendo l’attività anche presso detto ulteriore studio;

b) se per divenire membro di un’associazione professionale sia sufficiente la sola laurea in giurisprudenza, ovvero sia necessaria l’iscrizione al registro dei praticanti, ovvero ancora l’abilitazione al patrocinio (e, in tale ultimo caso, se possa proseguirsi il rapporto associativo alla scadenza del periodo di abilitazione in mancanza del conseguimento del titolo di avvocato)

La Commissione, dopo ampia discussione, delibera il seguente parere:

“Deve premettersi che la richiesta di parere reca la data del 5 marzo 2003, ma risulta pervenuta solo in data 6 marzo 2006, e che non constano sulla questione altri documenti giunti presso questo Consiglio in data antecedente.

Sulla prima questione si evidenzia la circostanza che nessuna norma vigente impedisce di esercitare la professione contemporaneamente in forma associata ed in forma individuale. In particolare non può desumersi alcun divieto né dalla l. 23 novembre 1939, n. 1815, in tema di associazioni professionali, né dalla normativa in tema di società tra avvocati di cui agli artt. 16 e segg. del d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96; quest’ultima anzi, non stabilendo alcuna incompatibilità tra l’esercizio in forma societaria della professione forense e l’esercizio in via individuale – i lavori preparatori segnalano piuttosto che tale ipotesi era stata contemplata, ma che il legislatore delegato optò per non prevedere alcuna incompatibilità, cfr. R. DANOVI, G. COLAVITTI, S. BASTIANON, La libertà di stabilimento e la società tra avvocati, Milano 2001, pag. 119-120) – depone nel senso dell’impossibilità di prefigurare alcuna forma di incompatibilità tra l’esercizio in forma individuale e l’esercizio in forma associata, considerato che il grado di “afferenza” dell’avvocato all’associazione professionale è certamente minore di quello che si realizza con la società tra professionisti.

Quanto alla qualità necessaria per costituire un’associazione professionale, si osserva quanto segue.

L’esercizio delle professioni libere nella forma dello studio associato trova disciplina nella legge 23 novembre 1939, n. 1815. Le disposizioni di tale legge “…mirano ad impedire l’esercizio in forma anonima delle professioni protette ex art. 2229 c.c., il quale impedirebbe da un lato il controllo da parte di coloro che vi sono preposti, dall’altro contrasterebbe con la natura del rapporto di prestazione d’opera professionale, nel quale assume spiccato rilievo l’esecuzione personale dell’incarico” (Cassazione civile sez. II, 7 gennaio 1993, n. 79, in Giur. it. 1993,I,1,1927). A tale scopo l’art. 1 della legge citata dispone che venga usata come denominazione dell’ufficio e nei rapporti con i terzi, la dizione di “studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo, o tributario” seguita dal nome, cognome e titolo professionale degli associati. La norma fa altresì riferimento a persone che siano munite di titolo di abilitazione professionale, o autorizzate all’esercizio di talune attività in forza di disposizioni di legge, finendo indubitatamente per circoscrivere, nell’interesse della clientela, l’ipotesi dell’associazione alle forme di collaborazione con le quali due o più professionisti, danno luogo ad una variante organizzatoria dell’esercizio della libera professione in via individuale, basata sulla condivisione dei mezzi e delle risorse umane e materiali di supporto allo svolgimento della libera professione. Se è pur vero che lo studio associato non acquista personalità giuridica, e non può legittimamente sostituirsi ai singoli professionisti nei rapporti con la clientela (Cass.civ., sez. I, 23 maggio 1997, n. 4628, in Società, 1997, 1144), la disciplina di cui alla legge 23 novembre 1939, n. 1815 preclude la legittima costituzione di studi associati tra soggetti che siano professionisti regolarmente iscritti ad un albo professionale e soggetti che non lo siano, o non siano comunque abilitati all’esercizio di talune attività professionali.

Esclusa dunque ogni possibilità di considerare legittima ogni ipotesi di costituzione di associazione professionale tra avvocati e laureati in giurisprudenza, relativamente alla situazione del praticante abilitato deve ribadirsi quanto già considerato nel parere 23 maggio 2001, n. 20, e, in particolare, nel successivo parere 24 ottobre 2002, n. 103 (entrambi in I pareri del Consiglio Nazionale Forense (2001-2003), a cura di V. PANUCCIO, Milano 2005, risp. pag. 16 e 74): il praticante abilitato, in virtù della piena equiparazione all’avvocato, pur limitata temporalmente, può validamente far parte di un’associazione professionale. Tuttavia, alla scadenza del sessennio, questi deve essere considerato come soggetto non più abilitato all’esercizio della professione, e dunque non più idoneo a far parte di associazione professionale. In ogni caso, si ritengono comunemente ammissibili studi legali comuni tra avvocati e praticanti abilitati, purché ovviamente non si ingeneri alcuna confusione nella clientela, o addirittura non si lasci credere colpevolmente che il praticante abilitato sia invece in possesso del titolo di avvocato (particolare cautela dovrà essere applicata alla carta intestata e alle insegne dello studio).

Consiglio Nazionale Forense (rel. Orsoni), parere del 22 marzo 2006, n. 16

Classificazione

- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, parere n. 16 del 22 Marzo 2006
- Consiglio territoriale: COA Roma, delibera (quesito)
Prassi: pareri CNF

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