Il quesito posto dal COA di Palermo concerne il caso di cittadina comunitaria (rumena) residente in Italia, laureata in giurisprudenza secondo l’ordinamento di quel Paese, che chiede l’iscrizione nel registro dei praticanti senza patrocinio in Italia.

Ritiene la Commissione che, dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina dell’ordinamento forense (Legge n. 247/2012) e in costanza del periodo transitorio di cui all’art. 48 della medesima, non vi sia ragione per discostarsi dal proprio consolidato orientamento sul punto, da ultimo espresso nel parere 25 luglio 2008, n. 30, che qui di seguito letteralmente si riporta.
“Va confermato in proposito l’orientamento già espresso dalla Commissione, in particolare e da ultimo nei pareri 25 maggio 2005, n. 49 e 24 maggio 2006, n.28 (quest’ultimo con riguardo a cittadini extracomunitari).
Il titolo di studi è considerato dal diritto comunitario sotto un duplice profilo: innanzitutto come attestato di un percorso formativo in sé, e in secondo luogo come titolo abilitante all’esercizio di determinate attività professionali regolamentate.
Nel caso di specie il diploma di laurea in giurisprudenza acquisito all’estero può assumere rilievo accademico-formativo, e dunque essere riconosciuto ai fini della prosecuzione degli studi, a scopo concorsuale o ad altri fini, ovvero può essere considerato come il titolo presupposto per l’accesso (ed il successivo esercizio) alla professione forense.
Nel primo caso, ossia ai fini della piena equiparazione della laurea rumena a quella italiana, la normativa applicabile è quella internazionale pattizia. Infatti Italia e Romania hanno entrambe sottoscritto e ratificato la “Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella Regione europea”, fatta a Lisbona l’11 aprile 1997 (nel caso italiano la ratifica è avvenuta con la legge 11 luglio 2002, n. 148 e l’atto è divenuto operativo nel nostro ordinamento dal 26 luglio 2002; per la Romania la Convenzione è in vigore dal 1° marzo 1999).
La legge che ha autorizzato la ratifica della citata Convenzione ha disposto che siano, nell’ordinamento italiano, i singoli Atenei, nell’ambito della loro autonomia e in conformità ai rispettivi ordinamenti, a provvedere sulle domande di riconoscimento (art. 2, l. 148/2002).
La laureata in giurisprudenza potrà, ove intenda percorrere questa strada, presentare domanda di riconoscimento presso qualsiasi Università della Repubblica nella quale sia istituito il corso di
laurea in giurisprudenza. L’Ateneo dovrà provvedere entro novanta giorni dalla richiesta.
Se, viceversa, la cittadina comunitaria intende valersi del proprio diploma di laurea al fine esclusivo e specifico di essere iscritta nel registro dei praticanti avvocati, in tal caso spettano al Consiglio dell’ordine competente per territorio le relative valutazioni.
A tal proposito, la più recente giurisprudenza comunitaria – ed in particolare la sentenza 13 novembre 2003, nella causa C-313/01 – Morgenbesser, recepita dalla giurisprudenza interna (Cass. Sezioni unite, 19 aprile 2004, n. 7373) – ha precisato che il rifiuto dell’iscrizione non può essere dovuto per il solo fatto che il titolo proviene da istituzione accademica straniera.
La sentenza ha posto il principio che “il diritto comunitario si oppone al rifiuto da parte delle autorità di uno Stato membro di iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessario per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita, confermata o riconosciuta come equivalente da un’università del primo Stato”. Così che “spetta all’autorità competente verificare, …, se, e in quale misura, si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato in un altro Stato membro e le qualifiche o l’esperienza professionale ottenute in quest’ultimo, nonché l’esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni richieste per accedere all’attività di cui trattasi”.
Più precisamente ed in dettaglio è precisato non trattarsi “di una semplice questione di riconoscimento di titoli accademici, … per quanto pertinente e persino determinante per l’iscrizione” agli albi e registri professionali, poiché in casi siffatti non va verificata soltanto “l’equivalenza accademica del diploma di cui si avvale l’interessato rispetto al diploma normalmente richiesto ai cittadini dello stato ospitante”, ma la presa in considerazione del titolo accademico deve essere “effettuata nell’ambito della valutazione dell’insieme della formazione, accademica e professionale” che l’istante può far valere.
La procedura di valutazione, che l’autorità competente dello Stato membro ospitante (da identificarsi nel Consiglio dell’ordine che tiene il registro nel quale l’iscrizione è richiesta) ha il dovere di compiere, deve tendere ad “assicurarsi obiettivamente che il diploma straniero attesti, da parte del suo titolare, il possesso di conoscenze e di qualifiche, se non identiche, quanto meno equivalenti a quelle attestate dal diploma nazionale. Tale valutazione dell’equivalenza del diploma straniero deve effettuarsi esclusivamente in considerazione del livello delle conoscenze e delle qualifiche che questo diploma, tenuto conto della natura e della durata degli studi e della formazione pratica di cui attesta il compimento, consente di presumere in possesso del titolare”. Nel contesto di questo esame l’autorità competente dello Stato membro “può tuttavia prendere in considerazione differenze obiettive relative tanto al contesto giuridico della professione considerata nello Stato membro di provenienza quanto al suo campo di attività. Nel caso della professione di avvocato, lo Stato membro ha pertanto il diritto di procedere ad un esame comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze rilevate tra gli ordinamenti giudiziari nazionali interessati”. Se “a seguito di tale confronto emerge una corrispondenza solo parziale tra dette conoscenze e qualifiche, lo Stato membro ospitante ha il diritto di pretendere che l’interessato dimostri di aver maturato le conoscenze e le qualifiche mancanti”. Ed a questo proposito “spetta alle autorità nazionali competenti valutare se le conoscenze acquisite nello Stato membro ospitante nel contesto di un ciclo di studi ovvero anche di un’esperienza pratica siano valide ai fini dell’accertamento del possesso delle conoscenze mancanti”.
La giurisprudenza comunitaria risulta pienamente recepita dal Consiglio nazionale forense che in sede giurisdizionale ha condotto esame di merito dei requisiti per l’iscrizione, confermando in un caso (29 maggio 2006, n. 35) il diniego del Consiglio territoriale e riformandolo in altro caso (8 ottobre 2007, n. 141). Sarà, in conclusione, il Consiglio dell’ordine che dovrà valutare la completezza del percorso formativo, non solo accademico, della richiedente ai fini del proficuo svolgimento del tirocinio professionale, considerando la documentazione da questa prodotta in relazione al sistema giudiziario ed accademico di provenienza, al corso degli studi scelto ed al complesso delle sue esperienze pratiche.”

Consiglio Nazionale Forense (rel. Allorio), parere 25 settembre 2013, n. 89
Quesito del COA di Palermo

Classificazione

- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, parere n. 89 del 25 Settembre 2013
- Consiglio territoriale: COA Palermo, delibera (quesito)
Prassi: pareri CNF

Related Articles

0 Comment