Il Consiglio dell’ordine forense di Brescia chiede se, anche alla luce dell’orientamento del giudice amministrativo, si può affermare e riconoscere che il conseguimento del diploma di specializzazione della scuola per le professioni legali di cui all’art. 16, d. lgs. 398/1997 esonera il praticante dall’iscrizione biennale nel registro dei praticanti o, al contrario, si deve continuare ad affermare che è necessaria l’iscrizione al registro dei praticanti per almeno due anni.

Dopo ampia discussione congiunta con la Commissione per l’accesso e la formazione, la Commissione fa propria la proposta del relatore e, premesso che la rilevante portata generale del caso sottoposto nonché la deliberazione d’iscrizione che risulta adottata nel caso specifico consentono di ritenere ammissibile il quesito, adotta il seguente parere:

«1. La questione propone argomenti sui quali – come ricorda il COA richiedente – il Consiglio Nazionale Forense ha espresso una posizione consolidata, attraverso due pareri dell’anno 2005 (nn. 27 e 72) conformi a quanto già nella circolare 30-B/2003 del 24 ottobre 2003.
Tale impostazione va confermata, nonostante il difforme orientamento del giudice amministrativo.
Va al proposito ricordato che:
1.1) ai sensi del D.M. Giustizia 11.12.2001, n. 475 (GU n. 25 del 30.1.2002) solo il diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali di cui all’art. 16 del decreto legislativo 17.11.1997 n. 398 e successive modifiche “(…) è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per l’accesso alle professioni di avvocato e notaio per il periodo di un anno”;
1.2) la frequenza di una delle suddette scuole è di per sé inidonea a garantire il beneficio di cui al D.M. cit.;
1.3) la frequenza è compatibile con l’eventuale compimento del periodo di pratica tradizionale ed in particolare con la partecipazione alle udienze;
1.4) “(…) in ogni caso il periodo complessivo di formazione post laurea del praticante non può essere inferiore a due anni solari”;
1.5) l’iscritto nel registro il quale, frequentando la scuola, non ottenga il diploma, può – ai sensi dell’art. 1, 3° comma del DPR n. 101 del 1990 – utilizzare il dato della frequenza come se fosse relativa ad un corso post-universitario e quindi esonerarsi dalla sola pratica dello studio (e non dalla partecipazione alle udienze) per il periodo di un anno.

2. Ciò detto, la soluzione della questione suppone, nel quadro della conferma delle premesse poste dalla citata circolare, l’ulteriore precisazione dei nessi (e delle relative conseguenze) che si instaurano tra le principali norme che regolano la materia.
Tra esse spicca, da un lato, l’art. 17, 1° comma, n. 5) del RDL 27.11.1938, n. 1578 (come modificato dall’art. 2 della legge n. 406 del 1985) e dall’altro il complesso normativo costituito dalla legge (delega) 15.5.1997, n. 127 (art. 17, 114° comma), dal decreto legislativo (di attuazione della predetta delega) 17.11.1997, n. 398 (art. 16) e dal D.M. Giustizia 11.12.2001, n. 475 cit. (articolo unico).
L’art. 17, 1° comma, n. 5 del RDL 1578/1933 cit. prevede che per l’iscrizione nell’albo degli avvocati è necessario, tra l’altro, aver compiuto (lodevolmente e proficuamente) un periodo di pratica frequentando, per almeno due anni consecutivi posteriormente alla laurea, lo studio di un avvocato, assistendo alle udienze civili e penali. A questa esigenza si finalizza l’iscrizione nel registro dei praticanti.
Con il secondo gruppo di norme si prevede (per quanto qui rileva) che il conseguimento del diploma presso una scuola di specializzazione è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per il periodo di un anno.
Se da un lato è evidente che solo il conseguimento del diploma (e non la mera frequenza) assicura il risultato premiale sul fronte della pratica, dall’altro si potrebbe ritenere che quest’ultima, una volta conseguito diploma, è ridotta ad un anno e correlativamente ad un anno è ridotta la durata dell’iscrizione nel registro dei praticanti.
Questa conclusione combacerebbe anche con l’art. 17, 114° comma della legge delega n. 127 del 1997 che, nel riservare al regolamento da emanare con successivo D.M. la disciplina dei termini entro cui il diploma può costituire titolo valutabile ai fini del compimento della pratica (D.M. nella specie identificabile in quello n. 475 dell’11.12.2001), avverte che tale regolamento è adottato “(…) anche in deroga alle vigenti disposizioni relative all’accesso alle professioni di avvocato e notaio”.
Ciò fa venire meno l’ipotetico contrario argomento per cui il decreto ministeriale non potrebbe novare la materia della pratica col ridurla ad un anno siccome norma di rango inferiore rispetto a quella dell’art. 17, 1° comma, n. 5) RDL 1578/1933 che quella pratica vuole sia svolta per due anni consecutivi dopo la laurea. Infatti, la normazione per decreto non incontra l’anzidetto limite stante il rinvio autorizzatorio contenuto nell’art. 17, 114° comma della legge delega n. 127 del 1997 che permette la posizione di una disciplina anche in deroga alle vigenti disposizioni relative all’accesso.
Tuttavia, l’interpretazione da preferire (per i motivi che ora si diranno) è quella per cui non è la durata della pratica (e la correlativa necessità di iscrizione nel registro), ma la sua modalità di attuazione ad essere stata oggetto di intervento novativo.
3. Infatti, l’art. 17, 114° comma della legge (delega) n. 127 del 1997, nell’autorizzare il Ministro a regolamentare la materia anche in deroga alla legislazione vigente, prevede che “(…) il diploma (…) costituisce, nei termini che saranno definiti con decreto del Ministro della giustizia (…) titolo valutabile ai fini del compimento del relativo periodo di pratica”.
Ma un conto è la possibilità che un anno sia sostituito dal diploma, ferma rimanendo la pratica biennale, altro è dire che quest’ultima sia ridotta ad un anno.
L’interpretazione letterale e sistematica fa ritenere che sia la prima la soluzione corretta e pertanto che il decreto ministeriale in commento abbia novato la sola modalità di computo del periodo biennale di pratica e non la sua durata; sotto il profilo letterale, infatti, alludere al “(…) compimento del relativo periodo di pratica” significa rimandare, con l’uso del termine relativo, al periodo di pratica previsto dalla legge (due anni) ed ammettere – con l’uso del termine compimento – che esso può ritenersi compiuto anche quando uno dei due anni sia sostituito dal diploma.
Sotto il profilo dell’analisi di sistema, poi, non sfugge come la seconda soluzione assegna alla deroga della norma primaria operata dal regolamento, un ambito di incidenza modificatrice maggiore di quella frutto della prima opzione dato che quest’ultima circoscrive la novità normativa alla sola modalità di computo del periodo di pratica, questa restando per il resto non investita dalla modifica.
Il riferimento ad un’interpretazione della norma condizionata anche dalla misura della deroga, valorizza il principio della eccezionalità del potere di modifica e della tendenziale conservazione dell’enunciato normativo.
Si consideri poi che la seconda soluzione permetterebbe di ottenere il certificato di compiuta pratica anche prima del decorso di due anni dalla laurea (come invece richiesto dall’art. 17, 1° comma, n. 5) cit.) e ciò quale conseguenza della non coincidenza dell’anno solare con l’anno accademico, dato che il diploma può – dal punto di vista del computo in anno solare – essere conseguito dopo un anno e mezzo dall’iscrizione alla scuola.
Ciò si tradurrebbe in forma di disparità di trattamento tra praticanti, alcuni dei quali costretti ed altri no, a rispettare il requisito del biennio senza che la discriminante possa nemmeno essere ricondotta un atto volitivo dell’interessato posto che l’attuale meccanismo di accesso alle scuole, basato sul numero chiuso, esclude che ci si possa iscrivere sol perché lo si voglia.
La pratica resta pertanto quella biennale prevista dalla legge fondamentale, scandita da due anni consecutivi successivi alla laurea, spesi nella frequenza di uno studio legale e nella partecipazione alle udienze, un anno dei quali è sostituibile dal diploma in modo tale che il periodo complessivo di pratica non risulti inferiore al biennio solare (in termini, TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 22.12.2003, n. 3605; contra, TAR Lazio, Roma, sez. III, 23.03.05, n. 3312; TAR Calabria, Catanzaro, sez. III, 8.07.05, n. 1153; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 2.12.04, n. 8391; TAR Toscana, Firenze, sez. I, 24.02.04, n. 506).
4. La conclusione porta a ritenere che l’iscrizione nel registro debba protrarsi per almeno due anni e, in conformità a quanto già ritenuto da questo Consiglio Nazionale Forense nella richiamata circolare, per uno di essi la pratica dovrà svolgersi in modo (per così dire) tradizionale, mentre per l’altro il consiglio dell’ordine interessato non potrà eccepire l’interruzione se la sua modalità di svolgimento tradizionale sia surrogata dall’ostensione del diploma.
5. Quanto detto, pur nella consapevolezza dell’opinione contraria di una parte della giurisprudenza amministrativa, sfugge alle critiche da taluno avanzate.
Certamente inappropriata è quella con cui si denuncia un presunto effetto distorsivo conseguente al fatto che la frequenza della scuola, finalizzata al conseguimento del diploma, è (per il momento) biennale sicché la pratica si amplierebbe sostanzialmente a tre anni; così argomentando non si tiene conto di quanto già rilevato dal Consiglio Nazionale Forense nella citata circolare laddove si sottolinea che la frequenza è compatibile con lo svolgimento tradizionale della pratica.
Di guisa che è certamente ammissibile una parziale sovrapponibilità di quest’ultima e della frequenza della scuola, considerando sia, in astratto, che la pratica è stata persino ritenuta compatibile con la maggior parte dei rapporti di lavoro dipendente e dunque a maggior ragione lo è con la frequenza di una scuola, sia, in concreto, che quest’ultima è quasi dappertutto organizzata in modo tale da consentire ampia frequenza dello studio legale e delle udienze.
6. Non convince nemmeno l’argomento per cui, se l’iscrizione biennale nel registro attribuisce al consiglio dell’ordine un potere deontologico nei confronti del praticante, esso è in concreto inesplicabile per l’anno di svolgimento non tradizionale della pratica.
Infatti, la presa deontologica si esprime anche in relazione a fatti e comportamenti estranei all’esercizio della pratica ma che siano idonei a produrre un riflesso deontologico, sicché poca conta che nell’anno di riferimento il praticante non esplichi attività tipica della pratica tradizionale rappresentando la sua iscrizione nel registro la precondizione per un controllo deontologico comunque possibile.
7. Anche la sentenza del Consiglio di Stato sezione IV del 5 ottobre 2005, n. 5353 non appare convincente alla Commissione.
Il Consiglio di Stato ammette che esistono fonti di rango primario che inequivocabilmente stabiliscono la durata complessiva del tirocinio professionale in almeno due anni (cfr. articolo 17, comma 1, lett. 5, Rdl 1578/33, e articolo 2, legge 406/85). Tuttavia afferma che la norma di legge che ha autorizzato la fonte regolamentare a rendere la disciplina dei termini entro cui il diploma di specializzazione può costituire titolo valutabile ai fini del compimento della pratica, nella misura in cui ha disposto che il predetto regolamento è adottato “(…) anche in deroga alle vigenti disposizioni relative all’accesso alle professioni di avvocato e notaio” (articolo 17, comma 114, legge 127/97), ha consentito al successivo atto di esercizio della potestà normativa delegata di incidere non solo sulle modalità concrete di svolgimento della pratica, ma anche sulla sua durata, perché la durata non afferirebbe a quei “principi fondamentali” della materia che soli sarebbero al riparo dalla deroga. Il giudice amministrativo propone quindi una ricognizione dei principi fondamentali che regolano l’accesso alla professione di avvocato (nei generici termini di necessaria, idonea e adeguata preparazione teorica e pratica, nonché di consapevolezza della funzione, dei diritti e dei doveri -deontologia professionale – e di decoroso comportamento). Sennonché l’approccio appare assai semplificato, per esempio nel mancato richiamo, tra i principi fondamentali, della necessità di un esame di Stato per l’accesso alla professione di avvocato, principio di rango propriamente costituzionale (cfr. articolo 33, comma 5, della Costituzione).
Sembra piuttosto che debba essere precisata l’effettiva portata della delegificazione operata con il comma 114 dell’articolo 17 della legge 127/97. Al proposito è vero, come afferma il Consiglio di Stato, che la legge non precisa quali siano le norme di rango primario effettivamente derogabili con la fonte regolamentare, tuttavia appare discutibile distinguere, nell’ambito di tali disposizioni, quelle che accedono al terreno dei principi fondamentali e quelle che non vi accedono.
Ritiene la Commissione che la norma primaria non individui le norme di legge derogabili perché rimette tale scelta alla fonte regolamentare, in termini assolutamente eventuali (“anche in deroga” e non, semplicemente, “in deroga”), secondo una tecnica di delegificazione forse incoerente ma assai diffusa nell’ordinamento.
Nel caso di specie l’atto di esercizio del potere regolamentare in oggetto è il decreto del ministro della Giustizia 475/01, che nel suo articolo unico, come detto, dispone che “il diploma di specializzazione è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per l’accesso alle professioni di avvocato e notaio per il periodo di un anno”. Da questa formulazione non pare possibile ricavare un’intenzione nel senso della deroga alle norme di legge che prevedono una durata complessiva del tirocinio di almeno due anni. Ed è almeno indubbio che sia del tutto assente, dal testo riportato, una norma esplicita in questo senso.
Pare ragionevolmente potersi concludere che la fonte regolamentare abbia fatto un uso molto moderato della facoltà di deroga concessa dalla legge. Ha sancito che il diploma tiene luogo della pratica “tradizionale” per un anno, ma nulla ha disposto in ordine alla durata complessiva del periodo di tirocinio che, ai sensi della legge, si svolge “almeno per due anni consecutivi, posteriormente alla laurea”. In ipotesi, in base all’ampia deroga concessa, la fonte regolamentare avrebbe potuto dotare di valenza maggiore il diploma. Poiché essa nulla dispone in ordine alla durata complessiva del tirocinio, questa resta regolata dalle fonti primarie in materia, a nulla rilevando che queste fonti accedano o meno all’area dei principi fondamentali che reggono la disciplina dell’accesso alla professione.
8. In conclusione, la Commissione ritiene di confermare che il conseguimento del diploma di cui si discute, se esonera per un anno dall’effettuare la pratica nel modo tradizionale descritto dall’art. 17, 1° comma, n. 5), RDL 1578/1933, non esonera tuttavia dall’iscrizione biennale nel registro dei praticanti».

Consiglio Nazionale Forense (rel. Bianchi), parere del 11 dicembre 2008, n. 41

Classificazione

- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, parere n. 41 del 11 Dicembre 2008
- Consiglio territoriale: COA Brescia, delibera (quesito)
Prassi: pareri CNF

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